La redazione del sito RecensioneLibro.it intervista lo scrittore Pierpaolo Masciocchi autore libro “L’Ombra della Confraternita”
Dovendo riassumere in poche righe il senso del tuo libro “L’Ombra della Confraternita”, cosa diresti?
È un viaggio nelle ombre dell’animo umano e della società, un’indagine che parte da un delitto e arriva a toccare la colpa, la memoria e il potere. Ma soprattutto è un confronto con ciò che resta invisibile: le forze oscure che muovono il mondo e quelle, più sottili, che abitano dentro di noi. Ogni verità, nel romanzo, è uno specchio che riflette un’altra menzogna. E dietro la caccia all’assassino si nasconde una domanda più profonda: chi, davvero, manipola le nostre scelte?
Da dove nasce l’ispirazione che ti ha portato a scrivere questo libro in cui mistero e forze oscure si contendono la scena?
Nasce dall’osservazione del reale. Viviamo in un’epoca dove la verità è diventata merce, e la percezione ha sostituito la realtà. Mi interessava raccontare il male non come spettacolo, ma come struttura di potere. Ho immaginato Roma come un organismo vivo, corrotto, dove la storia antica e quella contemporanea si intrecciano. Le catacombe, le rovine, i palazzi ministeriali, i vicoli — tutto è corpo di un unico sistema. Lì si muovono i miei personaggi: Montanari, il commissario che cerca la giustizia; Valeria, la donna che cerca se stessa; e Vesperini, il mercante d’arte che conosce la verità ma la piega al proprio disegno. Da questo intreccio nasce L’Ombra della Confraternita: una storia dove la luce non redime, ma acceca.
Cosa vorresti che i lettori riuscissero a comprendere leggendo le tue parole? Quale segno vorresti lasciare in loro?
Vorrei che i lettori sentissero che la verità non è una meta, ma un passaggio. Non qualcosa da possedere, ma da attraversare. Nel romanzo, chi la sfiora — Gentile, Valeria, Montanari — ne paga sempre il prezzo: la perdita, la solitudine, la consapevolezza di non poter tornare indietro. Mi interessa quel momento in cui capire fa male, ma rende impossibile continuare a fingere. Se qualcosa dovesse restare, vorrei fosse questo: il dubbio come forma di coscienza. Il coraggio di non accontentarsi delle versioni comode, di guardare anche dove fa paura. Perché la verità, quando arriva, non consola, ma restituisce dignità. E in fondo è tutto ciò che possiamo chiedere alle parole: non salvarci, ma renderci più veri.
Cosa ti piace di più di ciò che hai scritto? Una frase, un concetto, l’ambientazione, un personaggio?
Forse l’atmosfera. Quell’insieme di luce e oscurità che avvolge ogni scena. Roma non è solo un luogo, è un personaggio che respira, osserva, giudica. Ma se dovessi scegliere un frammento, direi: “Ogni indagine è una ferita. E ogni ferita, se non guarisce, diventa destino.” In quella frase c’è tutto: la solitudine di Montanari, la follia di Vesperini, l’ambiguità di Valeria, e il peso di una verità che non libera mai del tutto.
Perché pensi che i lettori debbano leggere il tuo libro?
Perché L’Ombra della Confraternita è un thriller che unisce l’emozione dell’indagine al fascino dei misteri ancora irrisolti della storia. C’è la tensione di Roma, con i suoi delitti, le ombre del potere, gli enigmi che Montanari e Valeria inseguono passo dopo passo. Ma sotto la superficie scorre un’altra trama: quella delle civiltà scomparse, dei simboli nascosti nei secoli, delle verità che la storia ufficiale ha preferito dimenticare. È un romanzo che alterna ritmo e profondità, adrenalina e conoscenza. Ogni scoperta non riguarda solo un caso da risolvere, ma un segreto antico che parla di noi, di ciò che siamo stati e di ciò che non vogliamo vedere. Chi lo legge compie un doppio viaggio: nella Roma contemporanea e nel cuore dei misteri che ancora attendono di essere decifrati.
Se dovessi utilizzare tre aggettivi per definire “L’Ombra della Confraternita”, quali useresti?
Misterioso. Intenso. Rivelatore.
Misterioso, perché ogni pagina custodisce un enigma — storico, simbolico o umano — che chiede di essere decifrato. Dalle piramidi al cuore di Roma, tutto nel romanzo allude a qualcosa che va oltre ciò che si vede.
Intenso, perché la tensione non è solo nell’indagine, ma nei personaggi, nel loro modo di confrontarsi con la verità, con la paura, con il potere. Ogni emozione è portata al limite, ogni scelta ha un peso.
Rivelatore, perché dietro la trama si cela una domanda più ampia: quanto del nostro passato è stato nascosto, e perché?
È un thriller che svela, lentamente, che la vera indagine non riguarda solo un delitto, ma il mistero dell’uomo e della sua memoria.
Come ti sei mosso tra la storia e gli eventi nella ricerca di idee e materiale?
Mi sono mosso soprattutto attraverso i libri. Ho letto saggi, studi, teorie che mettono in discussione ciò che crediamo di sapere sull’antico Egitto e sulle sue origini, e ho cercato di capire cosa lega la conoscenza di allora ai misteri che ancora oggi non riusciamo a spiegare. Da quella immersione è nato tutto. L’Egitto, con il suo linguaggio fatto di segni e di silenzi, è diventato il centro ideale del romanzo: un luogo dove la scienza e il mito si toccano, dove ogni reperto sembra raccontare qualcosa che la storia ufficiale ha dimenticato di scrivere.
Ma c’è anche Firenze, con le sue ombre rinascimentali e i segreti nascosti dietro la bellezza delle opere. Botticelli, in particolare, è stato per me una chiave: nei suoi dipinti ho ritrovato la stessa tensione tra luce e mistero che attraversa il romanzo. Le sue figure sembrano parlare un linguaggio simbolico, come se custodissero messaggi provenienti da un sapere antico, forse persino egizio. Ogni elemento del libro — papiri, ushabti, amuleti, incisioni — nasce da letture, non da fantasia. Ma poi, tra le pagine, la verità storica si mescola al dubbio, e il dubbio diventa racconto. È lì che L’Ombra della Confraternita ha trovato la sua forma: nella linea sottile tra ciò che sappiamo e ciò che possiamo solo intuire.
Perché scrivi?
Scrivo per inseguire le domande che non trovano risposta. Quelle che si nascondono tra le pieghe della storia, nei segreti sepolti sotto la sabbia, o nelle stanze di una città che non smette di cambiare volto.
L’Ombra della Confraternita è nata così: dal bisogno di capire cosa accade quando la verità viene distorta, manipolata, occultata. Scrivere, per me, è un modo di indagare il mondo come fa Montanari con un delitto o Valeria con un codice. È cercare ciò che resta invisibile — nelle parole, negli uomini, nei simboli.
Non scrivo per spiegare, ma per scoprire. Ogni storia è un frammento di quella stessa ricerca: un tentativo di riportare alla luce ciò che la paura o la convenienza hanno fatto sprofondare nell’ombra.
Qual è l’elemento principale da cui parti per cominciare la stesura di un libro?
Di solito parto da un dettaglio, qualcosa che si imprime nella mente e non se ne va più. Per L’Ombra della Confraternita è stato un frammento di ceramica, ritrovato tra le pagine di un vecchio libro sulle civiltà perdute. Su quel frammento erano incise tre piramidi e la figura di una sfinge. Da lì ho iniziato a immaginare una storia che collegasse l’archeologia al mistero, la ricerca scientifica alla sete di potere. Non penso mai a una trama, all’inizio. Penso a un segno, a un simbolo, a qualcosa che chiede di essere decifrato. Poi arrivano i personaggi: Montanari, che indaga come se cercasse se stesso; Valeria, che eredita un segreto più grande di lei; e Vesperini, che incarna la seduzione del sapere assoluto. Scrivere per me è come rimettere insieme i frammenti di un reperto: parti distanti che solo con il tempo trovano un senso. Ogni libro nasce da questo gesto — tentare di dare forma a ciò che resta nascosto sotto la polvere della storia e della coscienza.
Quali sono i tuoi prossimi passi nel mondo della letteratura?
Sto finendo un romanzo che tenevo da tempo nel cassetto: A mia figlia. È un dialogo con la mia bambina, ma anche con una generazione intera che si trova a ereditare un mondo fragile e contraddittorio. In quel libro non ci sono maschere né misteri, solo la verità di un padre che prova a capire, e a spiegare, come si resiste senza perdere umanità. Dopo, credo continuerò a muovermi su questa frontiera: tra la storia e la coscienza, tra il reale e l’invisibile. Perché la letteratura, per me, resta questo — un modo per guardare in faccia la realtà e, allo stesso tempo, cercare di salvarne la parte che ancora merita di essere amata.
C’è un genere letterario che preferisci? Che credi sia quello più vicino a te?
Credo di appartenere al noir, ma non a quello che vive solo di delitti e indagini. Mi interessa il lato umano, l’ombra che ognuno porta dentro. Il noir, per me, è un modo di guardare il mondo senza filtri, di raccontare la verità quando non esistono più verità assolute. È il genere che mi permette di unire tensione e introspezione, di scavare nei sentimenti e nei limiti delle persone, non solo nei loro crimini. Dentro il buio, spesso, c’è più onestà che nella luce. Perché è lì che i personaggi si spogliano delle maschere, mostrano la paura, il desiderio, la fragilità. Il noir, in fondo, è una forma di ricerca morale: non divide il bene dal male, ma osserva come convivono nello stesso corpo, nella stessa scelta, nello stesso sguardo. È il linguaggio più sincero che conosco per parlare dell’uomo e delle sue contraddizioni.
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