Estratto Romanzo “La libertà non è la mia prigione” di Pasquale Franco

Estratto del romanzo "La libertà non è la mia prigione" di Pasquale Franco, terzo classificato nella sezione inediti al Concorso Letterario Nazionale "Autore di te stesso" 2011 organizzato da Recensione Libro.it in collaborazione con la CSA Editrice.
In questa pagina sono presenti link affiliati

Letto sfatto, cartocci di cevapčići, lattine, cicche di sigarette. Residui di una cena frugale. Il televisore ancora acceso. La poca luce che filtra dalla finestra illumina una gigantografia sbiadita. Su una parete la scritta zivite tamo, vivi la vita, testimonianza di chi mi aveva preceduto.
La radio trasmette la struggente Sarajevo ljubavi moja.
Mi guardo allo specchio, dovrei radermi ma non ne ho voglia. L’acqua filtra dal soffitto in un ticchettio snervante mentre il secchio comincia a traboccare lentamente. Non me ne curo più di tanto.
Grbavica, quartiere dormitorio alla periferia della città, è ormai la mia seconda casa. Sono qui da due settimane ma sembra già una vita. Piove fitto, preparo il caffè mentre alla Cnn scorrono le immagini dei negoziati. Mi avvicino alla finestra quasi trascinandomi, scosto appena la tenda; di fronte a me il monte Igman, alle spalle di Vrelo Bosne, unica via verso la salvezza. In strada un soldato. Ha freddo, batte i denti. Indugio ad osservarlo nella sua mimetica sdrucita, il basco calato sulla testa.
Le gocce di pioggia scivolano via, la giberna troppo larga per la sua vita. Avanza lento, quasi fossero gli anfibi a sostenerlo mentre meccanicamente porta alla bocca una sigaretta senza filtro. È indifferente allo schiamazzo dei bambini che, poco più in là, giocano a basket con un canestro di fortuna. È giovane, ha lo sguardo assente, perso nel vuoto, di chi è stato costretto a crescere troppo in fretta. Una barba incolta fa da cornice ad un viso emaciato e pallido.
Per un attimo mi chiedo se sia serbo o bosniaco. «È un uomo», mi rispondo seccato dal mio dubbio. Nota la mia presenza e richiama l’ attenzione con fare pigro. Chiede qualcosa per scaldarsi strofinandosi le mani in un gesto istintivo. I guanti bucati non hanno resistito all’incedere del tempo. Mi precipito giù per le scale e gli offro l’unica cosa che ho: caffè. «Hvala covjek», grazie amico, mi sussurra gentilmente con un sorriso appena accennato. Mi saluta con un ghigno e prosegue per la sua strada senza voltarsi. Barcolla.
Resto immobile mentre osservo un vecchio tram arrugginito che arriva scampanellando, colmo di persone.
È la linea numero 3 che collega il centro ad Ilidža, attraversando per intero il Zmaja od Bosne, il «Viale dei Cecchini».
Tutt’intorno, scene di vita quotidiana; gente per la strada avanza frenetica, all’apparenza senza una meta, donne tornano a casa con il pane nei cesti, anziani davanti alle porte di casa a scrutare la vita che fu. L’Holiday Inn è sempre lì con il suo colore giallo che sembra uno schiaffo nel viso.
È strano come a Sarajevo anche il tempo sembri indolente nel suo scorrere.
La mente torna al mio arrivo in città. Uno zaino, la fotocamera e l’orgoglio di quel certificato di accreditamento con il mio nome scritto accanto ad una foto che mi ritraeva sorridente. Era tutto ciò che avevo.
L’aeroporto di Butmir un luogo senza tempo. Tra i pochi civili in mezzo ad una folla in divisa, impossibile non essere notato. Disorientato, vicino al nastro dei bagagli, osservai due militari che parlavano fitto gesticolando. Mi avvicinai discreto come se fossero un raggio di luce in mezzo al buio, spinto solo dalla voglia di sentirmi al sicuro. Mi fermai accanto a loro qualche minuto, giusto il tempo di capire ciò che dovevo. Tensione e paura, solo quello.
Fuori l’aria era pesante. Intorno cingolati e soldati in assetto da combattimento che scrutavano l’orizzonte. Sguardi tesi, duri come il freddo pungente di quei giorni. Il silenzio per le strade assordante, quasi una città fantasma, senza presente né futuro. In lontananza raffiche di mitra, unica testimonianza di vita.
I segni della follia tangibili nelle cose, ma soprattutto nei cuori e negli sguardi. Case anonime, alcune sventrate, crepe e giardini poco curati, gente ancora scossa da quanto accaduto. Alti palazzi grigi, atri anonimi e scrostati, i segni degli obici e dei colpi dei cetnici lì, a futura memoria.

Condividi che fa bene

Recensione scritta da

Redazione - Recensione Libro.it