Recensione Libro intervista Giuseppe Galato autore del libro “Breve guida al suicidio”

Intervista all'autore di “Breve guida al suicidio".
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1. Per iniziare… raccontaci qualcosa di te, qualcosa che vorresti che i nostri lettori sapessero prima di entrare in contatto con il libro che hai scritto.

Ciao a tutti, sono Giuseppe e non tocco una bottiglia da due giorni. Non è vero, bevo tutti i giorni, a casa e suonando e uscendo. Anche se bere fa male: non fatelo (politically correct mode: off). Da bambino appesi un assorbente su una porta, come fosse uno sticker qualsiasi. Negli anni ’80 gli sticker andavano forte. Pensa che non m’è mai piaciuto il calcio ma gli album Panini ce l’avevo, alla faccia del consumismo veicolato. Potrei continuare così, a braccio, per pagine e pagine di associazioni libere (Posso sedermi sulla sedia? Non mi piace stare sul lettino. No? Com’è? Fa parte della cornice relazionale? Vabbe’), riempiendo le righe di inutilità come accade quando si scrive un romanzo, ma stiamo a fa’ n’intervista e quindi mi fermerò. Avendo usato il futuro però non è ben precisato quando dovrei fermarmi. Ok, mi fermo.

2. Dovendo riassumere in poche righe la trama dell’opera “Breve guida al suicidio” cosa diresti?

Il libro non ha una trama, in realtà: è scritto sotto forma di saggio (finto saggio) in cui viene analizzato il suicidio sotto vari aspetti, proprio come accade in un qualsiasi saggio analitico di quelli che si studiano all’università (o, se ti fa piacere, che ti leggi per fatti tuoi per interesse tuo personale, che è molto meglio, venendo a mancare l’imposizione istituzionale del “soggetto università”). Ma cosa vuol dire “finto saggio”? Vuol dire che non c’è nulla di serio: il libro è comico, cinico, sarcastico. Non per questo mancano analisi e riflessioni acute e profonde (si, me la tiro). Però basta fare spoiler, altrimenti il lettore che cazzo se lo dovrebbe legge a fa’?

3. Da dove nasce l’idea e quali sono le motivazioni che ti hanno spinto a scrivere quest’opera?

“Tutti nella propria vita hanno pensato almeno una volta al suicidio. Bhè, tutti tranne quelli che non ci hanno mai pensato”, recita l’incipit di “Breve guida al suicidio”: ecco, io al suicidio c’ho pensato varie volte, anche se mai seriamente (sono troppo curioso e voglio vede’ dove e come va la vita, a parte che ho iniziato a guardare un po’ di serie TV e non posso lasciarle a metà mica). Al tema del suicidio ho legato quello socio-economico seguendo un po’ l’idea che, di base, in vita (vita umana), tutto ritorna all’economia la quale influenza il sociale che a sua volta influenza la sfera psicologica personale degli individui (individui che a loro volta influenzano il sociale e quindi l’economico in un circolo vizioso, senza voler addentrarci in discorsi sulle restrizioni imposte dall’alto e cose del genere, considerando che, di base, anche chi sta “in alto” è “vittima” del sistema): materialismo storico (o era “stoico”? Non ricordo mai). Il libro è molto coglione, è comico, ma è anche molto critico, cinico, sarcastico, cattivo, riflessivo. Quello che ho cercato di fare è stato scrivere qualcosa di fruibile (grazie all’aspetto comico) cercando però al contempo di far ragionare il lettore su determinati aspetti beceri del nostro vissuto ridendoci un po’ su. Nulla di nuovo, eh, e magari l’ho fatto pure di merda, ma mi andava e ‘sti cazzi. Se il libro fa cacare vorrà dire che avrete perso un po’ del vostro tempo leggendomi. Ma tanto “Breve guida al suicidio” è stupendo e supplicherete dio (per chi ci crede: io non credo nell’esistenza di entità superiori, a parte me stesso) di donarmi l’immortalità perché possa continuare a scrivere per voi (e DI voi, perché quello che scrivo parla sempre DI voi).

4. Cosa vorresti che il lettore cogliesse entrando in contatto con le parole del tuo libro?

Vorrei che capisse quanto l’essere umano fa schifo e quanto tutto quello che esso fa, in primis la ricerca di un senso superiore delle cose affidato a modi di fare dogmatici (religione, fede calcistica, bandiere varie), sia idiota. Di quanto fa schifo nella sua ricerca compulsiva di potere (e sopraffazione del prossimo). Di quanto fa schifo per aver distrutto un mondo intero. Vorrei che il lettore si soffermasse un attimo a pensare a tutto ciò, a questi aspetti spaventosi insiti nell’essere umano, spaventosi più di qualsiasi orrore nato da una finzione narrativa. E che ci si faccia una risata su (perché tanto di più non può fare).

5. Quanto ha influito la realtà complessa e disperata di questi ultimi anni sulla necessità di scrivere questo testo sulle varie tecniche di suicidio?

Una volta, da ragazzino, fino ai primi anni di università, avevo un sentore più comunitario. Ho fatto parte di Lotta Comunista con la convinzione che si potessero cambiare le cose. Ultimamente ho perso speranza, speranza nel cambiamento e nelle persone (le due cose sono collegate), quindi sono diventato fondamentalmente individualista e poco interessato a ciò che mi accade attorno (nel senso, me ne interesso, ma da un punto di vista meramente analitico senza la speranza di poter lottare contro il sistema e cambiare le cose). Immagino che la domanda sia riferita anche ai suicidi legati al mondo del lavoro: per me non si ha ragione di suicidarsi per lavoro. L’ho già detto in un’altra intervista, chi si suicida per “colpa” del lavoro è un allineato al sistema che, piuttosto che la morte, potrebbe scegliere la strada del vagabondaggio, fottendolo così il sistema: spogliandosi di tutto l’uomo sarebbe libero, senza vincoli. Ma siamo troppo legati a ciò che crediamo sia il sistema sociale giusto (e cioè quello in cui viviamo) e quindi non riusciamo a prendere decisioni “drastiche” del genere. Paradossalmente sembra sia più drastico licenziarsi che non suicidarsi, quando dovrebbe essere il contrario. Questo accade perché siamo fondamentalmente allineati a un sistema, il nostro, che pone l’economia al di sopra di tutto, anche al di sopra della vita stessa, la vita che è base di tutta l’esistenza umana in toto e senza cui non potrebbe esistere sistema economico. È abbastanza schizofrenica la cosa. Siamo succubi di questo allineamento ad un sistema incombente sulle nostre vite, un sistema (sociale) che totemicamente ci fa sentire parte di un qualcosa (comunità). Ed è proprio l’aspetto totemico della società che non ci permette di “ribellarci”: abbiamo paura di contrastare il sistema (anche con il solo pensiero, contraddicendolo, come sto facendo io ora, e non necessariamente con azioni di lotta materiale, che trovo anche inutili); abbiamo paura di contrastare i suoi “valori” (più o meno da tutti condivisi, anche solo inconsciamente, e sottolineo ciò proprio per il fatto che anche chi va contro determinati aspetti sociali ne è comunque influenzato in quanto parte del sistema); questo “blocco” è mosso dalla paura di non essere parte, come individuo, di questa rassicurante comunità-famiglia (nel caso quest’ultima, questa comunità-famiglia, rappresentata dalla società stessa, venga messa in discussione da noi stessi: un po’ come se ci auto-escludessimo da essa); è la paura del restare soli (quando poi forse imparare a saper restare soli sarebbe la cosa più salubre da fare); chi è solo, ci hanno insegnato, non conta nulla (e per questo ci raggruppiamo in gruppi e fedi, che siano religiose, calcistiche, politiche); siamo alla costante ricerca di gratificazioni che nascano dall’accettazione altrui di noi stessi, dal giudizio altrui, in quanto questi “altri”, queste altre persone da cui cerchiamo attenzioni, sono esseri facenti parte di un tessuto sociale, una società-dio su cui proiettiamo figure paterne (quindi l’accettazione da parte delle persone facenti parte di una struttura sociale rappresenta l’accettazione da parte di questa società-dio-padre in toto); il marketing (sia esso pubblicitario per la vendita di un prodotto o sia esso politico per la raccolta voti o religioso per il reclutamento di accoliti) lavora molto su queste logiche inconsce; non mi piace molto citare, ma diceva Kierkegaard “la maggior parte degli uomini non ha paura di avere un’opinione errata, bensì di averne una da sola”.
Ora, detto ciò e tornando alla questione dei suicidi sul lavoro, sono duro in queste risposte perché:
1) odio i falsi moralismi dei miei coglioni che si fanno a tragedia avvenuta;
2) ma possibile che dobbiamo (e mi riferisco a chi si suicida così come a tutti gli altri) così fortemente essere condizionati da questa società consumistica?
Dovremmo licenziarci tutti in tronco, prima di tutto smettere di anelare a un sempre maggiore potere economico (e quindi di status sociale) personale. Ma che te lo dico a fare?

6. Come mai hai deciso di distribuire gratuitamente attraverso i social network “Breve guida al suicidio”? E cosa ti aspetti adesso da questo libro?

Perché avevo il libro sul PC da due anni, l’avevo mandato a qualche casa editrice senza risultati (a parte qualche stronzo che voleva soldi per pubblicarmi) e m’ero rotto di aspettare (magari sarei morto e nessuno, a parte pochi amici, avrebbe avuto l’onore di leggere “Breve guida al suicidio”: un peccato per il mio ego). Dal libro non mi aspettavo nulla ma, grazie a ‘sto fatto del free download, sono stato contattato dalla casa editrice La Gru di Padova che lo pubblicherà quanto prima.

7. Qual è il romanzo che ha “rivoluzionato” la tua vita conducendoti alla scrittura?

Sicuramente uno dei romanzi che mi ha “rivoluzionato” la vita è stato “1984” ma, no, non mi ha spinto a scrivere. Credo non ci sia stato un romanzo in particolare, forse i racconti di Calvino. Sicuramente “The Hitchhiker’s Guide to the Galaxy” di Douglas Adams è stato fondamentale nella stesura di “Breve guida al suicidio”, così come i libri di Woody Allen (su tutti “Without Feathers”) e quelli di “Fantozzi” (lo sapevate che “Fantozzi” nasce come racconti scritti da Paolo Villaggio? No? Sapevatelo). E anche i Monty Python e Terry Gilliam.

8. Quale libro non consiglieresti mai a nessuno?

Di quelli che ho letto (e abbandonato prima di poterli finire) di sicuro “Esco a fare due passi” di Fabio Volo. Poveraccio, mi dispiace pure dargli contro, che si impegna così tanto a fare l’intellettuale invitando gente come Chomsky. E magari è nel suo progetto “istruire” le masse scrivendo merdate pregne di luoghi comuni e retorica per arrivare a quanta più gente possibile. Ma, anche fosse così, sono convinto che non serva a niente e, anzi, è pure peggio: si tende in questo modo a creare delle élite di “ignoranti istruiti”, se mi passi il termine. Un po’ come la da me tanto odiata sinistra radical chic italiana (e mi considero di sinistra, eh).

9. Adesso è arrivato il momento per porti da solo una domanda che nessuno ti ha mai fatto, ma a cui avresti sempre voluto rispondere…

La domanda alla Marzullo!!! La faccio spesso anche io in veste di intervistatore!!! E, devo dire, ora che mi ci trovo di fronte dall’altro lato, minchia, è tosta!!! Potremmo fare “Quant’è lungo il tuo pene?”, ma non c’ho voglia di fare brutte figure a quest’ora. “Brutte figure” non relativamente alla domanda ma per la risposta che dovrei dare, eh. Potrei adattarmi alla marzullata e chiedermi “Ma la vita è sogno o i sogni aiutano a vivere?”, ma sinceramente m’è sempre sembrata una domanda del cazzo. Facciamo così: “Perché usi un linguaggio così crudo e volgare?”. La accendiamo? La accendiamo. E ti rispondo copiandoti di seguito il testo di una mia canzone tratta da un mio progetto musicale ancora in cantiere, Merda In Bocca, un misto di punk hardcore e grunge che ha come titolo provvisorio “Hanno ucciso Pasolini, hanno ucciso la poesia” (la canzone si chiama, per l’appunto, “Volgare”):

L’ipocrisia è volgare
La religione è volgare
La borghesia è volgare
La tua ignoranza è volgare
No, il mio linguaggio no
No, le mie bestemmie no
Capitalismo è volgare
Il tuo potere è volgare
Lo sfruttamento è volgare
Il tuo cervello è volgare
Oh, ed io bestemmierò
Oh, in culo a voi
La falsità è così volgare
Quella che volgi anche a te stesso
Non sai nemmeno ciò che pensi
Sei solo un grande compromesso
Sei morto dentro e non ti accorgi
Di quanto vacua è la tua vita
Ragioni per imposizioni
Faresti meglio a farla finita
Oh, vatti a ammazzare mò
Oh, levati dal cazzo che ci facciamo un po’ più spazio

Però un’altra bella domanda potrebbe essere “Parli tanto di come società e cultura ci influenzano rendendoci pressoché schiavi silenti e incoscienti di ciò che ci accade: credi sia possibile un cambiamento o una rivoluzione?”. E ti risponderei: “No, e la storia lo insegna”. Tutte le grandi rivoluzioni sono fallite perché:
1) È l’essere umano che è fallimentare e non sa rivoluzionare per prima cosa sé stesso mettendo in discussione quello in cui crede di credere (perché le credenze sono sempre fittizie e limitanti), primo passo per una rivoluzione realistica (culturale);
2) Il potere sa e ha sempre saputo rigenerarsi (anche grazie, guarda caso, alla maggiore forza economica di cui dispone e ha sempre disposto)
Qualcuno potrebbe dire che la mia è una visione pessimistica, ma io la trovo al contrario alquanto realistica. Siamo in troppi sul pianeta e c’è troppa dispersione dell’informazione (l’informazione è fondamentalmente l’unico fattore che potrebbe portare ad una evoluzione effettiva). A parte ciò la gente tende a distorcere le informazioni che acquisisce a proprio uso ed abuso. Le uniche persone che sono in grado di attuare una rivoluzione del proprio pensiero sono i bambini, ancora non calati in un tessuto sociale che opprime il pensiero libero personale. Ma sono discorsi per assurdo. Siamo in troppi anche per le risorse del pianeta, e mi dispiace del fatto che lo abbiamo irrimediabilmente distrutto. Non provo pietà per l’essere umano ma ne provo molta per il pianeta, per le piante e gli animali. L’essere umano è una distorsione, un essere che non si adatta a ciò che lo circonda cercando un equilibrio ma, al contrario, adatta ciò che gli sta intorno distruggendo: un essere anti-darwiniano. Siamo la morte: “In the death of mere humans life shall start!”.

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Recensione scritta da

Redazione - Recensione Libro.it