Intervista scrittore Davide Pongetti

Intervista a Davide Pongetti autore del libro “Aspetta a morire che finisco la partita”.
Davide Pongetti
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La redazione del sito Recensione Libro.it intervista lo scrittore Davide Pongetti autore del libro “Aspetta a morire che finisco la partita”

Dovendo riassumere in poche righe il senso del tuo libro “Aspetta a morire che finisco la partita”, cosa diresti?

Nel titolo c’è la richiesta provocatoria di tenere sospesa la morte, cosa significa? C’è la chiamata a rimanere in piedi di fronte ai mutamenti radicali della nostra esistenza grazie all’ironia, alla passione per ciò che si ama.

Il senso di questi racconti risiede nell’ascolto di una voce che dice: mettiti in gioco, per non morire, metti il tuo cuore in quello che fai e anche quello che sembra perduto ritornerà.

Da dove nasce l’ispirazione che ti ha portato a scrivere queste storie in cui surreale e reale si incontrano?

L’emozione è il motore di ogni racconto. In ognuno ho cercato di preservarla nascondendola un po’, camuffandola come in un sogno. L’ispirazione nasce dall’esigenza di raccontarsi nudi, fragili nel rapporto d’amore per l’altro. La voglia di essere imperfetti, spaesati, di svelare le proprie contraddizioni senza prendersi troppo sul serio. Le esperienze ispiratrici di fondo sono i rapporti d’amore con i figli, con la compagna, piuttosto che per gli amici. Il bisogno di dare un senso al dolore per la perdita di tante persone care. Infine, il difficile percorso di amare stessi, accettare la propria vocazione, rispettare le passioni più profonde. Ah, come dimenticare l’ispirazione ricevuta dall’ascolto dei grandi gruppi di rock progressivo degli anni settanta o dalla lettura di grandissimi autori come Raymond Carver, John Cheever, Andrea Bajani e tanti altri.

Cosa vorresti che i lettori riuscissero a comprendere leggendo le tue parole? Quale segno vorresti lasciare in loro?

A chi legge chiedo di lasciarsi prendere per mano, di sentire più che capire le storie che racconto. Vorrei che rimanesse un sottile brivido, un sorriso di complicità come dopo una capriola fatta sul letto proibito. Mi piacerebbe che nel lettore si insinuasse l’idea che l’amore e la passione lasciano impronte concrete sugli oggetti quotidiani, sui nostri stessi corpi, che si perdono e si ritrovano in un sentiero di spaesamento ma anche di speranza.

C’è qualcosa che avresti voluto aggiungere al libro, quando lo hai letto dopo la pubblicazione?

Il libro rispecchia quello che è stato il mio confronto con il foglio bianco fino ad oggi. È un insieme di esplorazioni tematiche ed evoluzioni stilistiche. La risposta quindi è negativa. Nella sua imperfezione, frammentazione, il libro, trova la sua dimensione più vera.

Se dovessi utilizzare tre aggettivi per definire “Aspetta a morire che finisco la partita”, quali useresti?

Ironico, fantasioso e nostalgico.

Perché credi si debba leggere il tuo libro?

Perché è un lavoro onesto, scritto per passione e genuina necessità. Perché mi sono emozionato a scriverlo. Perché è un lavoro sicuramente acerbo ma anche profondo. Non ha bisogno di un impegno particolare, è scorrevole e tutto sommato piacevole anche se tocca temi importanti. Perché c’è cuore, umanità ed un sorriso benevolo che lascia al lettore il sapore sapido delle cose della vita.

Quali sono i tuoi prossimi progetti in fatto di scrittura?

Continuo a scrivere racconti, in questo momento incentrati sulle esperienze della mia adolescenza. L’ironia ed il sorriso hanno la parte sempre più importante. Chissà, forse potrebbe nascerne anche un romanzo.

Qual è il libro che hai letto quest’anno che ti ha più colpito e consiglieresti?

Quest’anno mi ha colpito particolarmente il romanzo di Margaret Atwood: “Il racconto dell’ancella”. Libro distopico, potente, attuale, scritto in maniera avvincente da una scrittrice molto raffinata. Per chi ha voglia di andare al tappeto con un colpo secco sotto la cintura.

Adesso è il momento di porti una domanda che nessuno ti ha fatto ma a cui avresti sempre voluto rispondere.

Perché hai aspettato 57 anni per pubblicare un libro?

Il piacere di scrivere c’è sempre stato. Solo una ventina di anni fa, dopo un percorso di analisi, ho compreso che avevo bisogno di esprimere il mio mondo emotivo in maniera creativa. Ho impiegato molto tempo ad imparare a rendere leggibili e godibili le mie peripezie interiori. Sono stati poi gli amici a darmi il coraggio di buttarmi nell’avventura della pubblicazione. I cinquant’anni sono l’età giusta per uscire dalla propria area di comfort, scendere dal piedistallo dei ruoli acquisiti in una vita, mostrarsi senza falsi pudori, esporre la propria follia allo sguardo degli altri.

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Recensione scritta da

Redazione - Recensione Libro.it

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